Tre sacchi bianchi da portare

 

Erano partiti assieme un paio d'anni fa da Freetown. La Sierra Leone è un paese dove i diamanti si sono colorati di sangue e di bandiere straniere. La guerra civile ha mutilato le mani e la storia del paese. Inventato per dare spazio agli schiavi ormai liberi da catene si è trovato prigioniero del suo futuro. Per questo Jallot e i suoi amici erano andati lontano dalla miseria e dall'Ebola nel frattempo sopraggiunta. La Guinea, il Senegal, la Mauritania e infine il Marocco per cercare l’altra sponda. Il paradiso è appena a una dozzina di kilometri. Un niente rispetto alle migliaia percorsi andando da nessuna parte nel suo paese. Torna a casa con la foto di tre sacchi bianchi e i certificati dei compagni  morti in mare. Dovrà portare la notizie alle famiglie che ancora non sanno. Ousmane, Diallo e Therence sono i nomi nascosti dentro i sacchi allineati all’obitorio.

 

Sulla riva del mare quella notte c’era anche lui. Dice che erano 35 e ognuno pagava 500 E per sfidare la traversata. All’ultimo momento una voce di paura gli ha consigliato di non tentare. Almeno 15 hanno smarrito la vita tra le onde del Mediterraneo a fine gennaio, in pieno inverno di quest’anno. Da allora vive quasi scappando per non dimenticare che quella notte nella barca c’era anche il suo posto numerato. Ha tentato invano una sola volta l’assalto alla rete di Melilla, troppo ben difesa da mercenari. L’anno gli è scivolato tra le mani nella foresta di Nador dove procurarsi da mangiare era vietato dai gendarmi. Decide di tornare a casa per mostrare la fotocopia originale dei tre sacchi bianchi allineati come candele davanti al mare. Jallot ha fatto il giro del mondo e torna in Sierra Leone con gli occhi bagnati di mare e di lacrime.

 

In Sierra Leone ci sono i diamanti e per molto tempo le Nazioni Unite. I giacimenti sono sfruttati bene e le compagnie lavorano a pieno ritmo. Coi diamanti le bande ribelli hanno finanziato la loro guerra di armi e bambini soldato. Perché la  gente non andasse a votare hanno mozzato loro le mani. Un paese che annaspa tra l’oceano, le paludi e la foresta. I portoghesi prima e gli spagnoli poi l’hanno chiamato come la Montagna del Leone. Jallot dice che solo sua madre è rimasta ad aspettarne il ritorno. Di suo padre non sa nulla così come del suo futuro. Spera solo che Ebola abbia risparmiato quanto rimane della sua famiglia. Torna con la foto e tre sacchi bianchi adagiati sul suolo come stessero dormendo sulla spiaggia. Dovrà informare le famiglie dell’accaduto e dare loro i certificati di decesso. Morti nel mare una notte di gennaio quando le stelle fingevano di brillare.

 

Jallot ha abbandonato la foresta di Nador  dopo un anno e sei mesi di sopravvivenza. Era stanco di scappare i bastoni dei gendarmi marocchini ogni mattina all’alba. Anche mangiare era diventato difficile e tra i migranti sorgevano divisioni secondo le nazionalità. Ha scelto di passare il confine con l’Algeria sfidando il mare di deserto per alcuni giorni. Mendicando pane e acqua è arrivato ad Algeri dove ha chieso di essere aiutato a tornare al suo paese di origine. E’ arrivato a Niamey con una borsa sportiva e l’altra di plastica difficile a chiudere per la polvere. Custodisce con cura i documenti dei compagni di viaggio neanche fosse un testamento. Guarda la foto coi tre sacchi bianchi che sembrano galleggiare tra le onde. Spera di trovare le parole per raccontare e i silenzi per capire. Alla stazione del bus ha ringraziato per una bottiglia d’acqua ricevuta in regalo per il viaggio.       

 

 

                                                                       mauro armanino, niamey, maggio 015